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giovedì, 28 Marzo 2024
  • La Parlesia: il linguaggio segreto dei musicisti

    E’ venerdì sera. Un’amica mi invita a cena a casa di un suo amico musicista che non conosco. Accetto. Serata piacevole, gnocchetti zucca e gamberetti, calamaro imbottito e un buon vino ( è un musicista che cucina proprio bene). Tra musica e parole, dopo un po’, a tavola mi perdo nei discorsi. Sarò io che sono stanca? Io non capisco quando parlano. Ma che stanno dicendo tra loro questi musicisti? Io non li seguo più. La mia amica mi rassicura: “ stai tranquilla, non è il vino…è parlesia”!
    Affascinata dalle loro risposte alle mie continue domande da giornalista, il giorno dopo corro ad informarmi. Vi riporto alcuni documenti che ho trovato.


    “A Napoli esiste un gergo chiamato parlesia praticato dai teatranti e in particolare dai musicisti. È un modo per capire se si appartiene o no alla stessa famiglia. Scopo principale della parlesia è quello di non farsi capire dai non addetti ai lavori. Supponiamo, ad esempio, che due musicisti stiano parlando tra loro e che si avvicini una terza persona alla quale non vogliono far sapere nulla di quanto guadagnano. In questo caso il primo dirà al secondo 'chiste accamoffa', ovvero «questo ci ascolta», per poi aggiungere 'a pila è loffia', ovvero «la paga è bassa». Tra i tanti modi di dire della parlesia quello che più mi ha colpito è lo specchio, dai più definito 'o tale e quale. Me lo comunicò un suonatore di mandolino prima di uno spettacolo di cabaret al teatro San Ferdinando. Io ero alquanto spettinato e lui, porgendomi un piccolo specchio, mi disse: "Tiè 'stu tale e quale c'a po' adoppo m'o tuorne", «Tieni questo specchio che poi me lo restituisci”. Tratto da "Tale e quale" di Luciano De Crescenzo.


    La creazione di un linguaggio segreto, sviluppatosi molto nell’Ottocento, era probabilmente dovuto al fatto che nell’esercitare musica extracolta basata soprattutto sull’improvvisazione, per un pubblico che pretendeva un’esecuzione-spettacolo, era necessario utilizzare tra musicisti un gergo incomprensibile agli ascoltatori. Questo gergo è rimasto segreto fino agli anni ’50 del Novecento, poi negli anni ’60 è uscito dall’ambito della “posteggia” ed è cominciato a diventare il linguaggio di chi a Napoli ha prodotto musica extracolta. La parlesia prende in prestito dal napoletano alcune caratteristiche fonetiche, morfologiche e sintattiche, ma anche alcune espressioni lessicali. “appuniscë l’alzesia do bbracce (fa il sollevamento del braccio), nun appunì bbagarië stanne venennë e ggiustinë (non fare confusione stanno arrivando le guardie), jamme amedeo (ragazzo frocio).Tratto dal testo di MariaTeresa Greco “I vagabondi il gergo dei posteggiatori”.


    Per riportare qualche esempio concreto cito asuddibatrana.it che meticolosamente ci spiega l’etimologia ed i prefissi di alcune parole. “ Questo gergo utilizza molto i suffissi –esië, così che il napoletano manë (mano) diventa manesië, il suffisso –ènza fumènza (sigaretta). La curiosità è che alcune parole provengono da metafore: sciusciandë (fazzoletto) dal napoletano sciuscià (soffiare), èvëra (erba in napoletano) per indicare i baffi, bbicicletta per indicare l’apparecchio per i denti (in napoletano denominata macchinetta) per cui jammë ca bicicletta sarebbe ragazza con la macchinetta.


    Questo linguaggio che una volta era segreto adesso è palesato in dizionari e varie traduzioni riportate sul web. Inoltre, bisogna considerare che con gli anni la lingua originaria ha subìto trasformazioni e contaminazioni varie, tanto da giungere fino ad oggi in una versione in cui  tante sfumature l'hanno quasi totalmente modificata rispetto al passato. Come quando anche nella lingua nazionale cambiano i modi di dire e gli slang dei ragazzi. A sottolineare alcuni aspetti di questo codice linguistico è un giovane musicista/produttore di 30 anni , Enzo Foniciello ( il famoso cuoco di cui sopra vi raccontavo le gesta culinarie). “La parlesia non s’impara sui libri- mi diceva- ci sono troppe irregolarità e casi specifici da interpretare. Per impararla bisogna vivere con i musicisti”. Mi ha spiegato che molte parole possono avere un significato totalmente opposto in base al contesto in cui sono introdotte e secondo l’intonazione con il quale vengono pronunciate. Ad esempio: bagaria. Il termine in se significa originariamente confusione o atto sciocco ed inutile ma “che bagaria” può significare tante cose, dipende anche dal tono. Può addirittura avere un’accezione contraria se detta in tono ironico o alludere a tutt’altro; potrebbe significare “che divertimento” oppure “ che guaio”. Intesa nella sua più attuale interpretazione, bagaria significa anche “cosa di qualità scadente”. Tante sono le espressioni e le parole che potremmo riportare. Ad esempio: “ si proprio addovà” (sei proprio un poco di buono- che potrebbe essere offensivo o affettuoso allo stesso tempo) oppure “è nu bagano”( tipo poco affidabile, inetto – anche detto "bbacone"). Ci sono poi “jammo/jamma”( ragazzo/ragazza) e “bane” (soldi). Sarebbe impossibile riportarli tutti ma spero che il senso vi sia arrivato.


    Alcuni artisti contemporanei hanno adoperato questo linguaggio in aclune composizioni, come il cantautore Pino Daniele in Tarumbò, contenuta in un album della casa discografica Bagaria. Anche il cantante Enzo Avitabile ne è un grande conoscitore. Renzo Arbore e Lucio Dalla negli anni ’90 hanno ammesso di utilizzarla tra musicisti (seppure in maniera divertente e giocosa).


    di Vivien Russo
     

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