Per dimostrare quanto si sono evoluti i freni per auto non è necessario parlare esclusivamente di vetture di gamma alta. Certo, in questo caso hanno fatto il loro ingresso, ormai da tempo, materiali innovativi come, per esempio, i dischi in carboceramica. Ma scendendo un “un po’ più in basso” nella scala dei contenuti, ci si può rendere conto dell’evoluzione dei sistemi frenanti semplicemente sottoponendo a una prova di frenata vetture di grande serie. Non è difficile imbattersi in prove di arresto dai 100 km/h che fanno segnare spazi inferiori ai 40 metri. Non è poco, se si pensa all’incremento di peso che hanno subito le vetture moderne. E il merito, che deve necessariamente essere equiripartito tra sistema di sospensione, pneumatici e freni, è proprio dovuto alla perfetta interazione di questi tre sistemi. Ma cos’è che rende pregevole un sistema frenante?
I materiali
I componenti che concorrono a formare il materiale di attrito delle guarnizioni frenanti sono senz’altro protagonisti di primo piano. Da quando, qualche anno fa, fu bandito l’uso dell’amianto per la realizzazione dei ferodi e delle pastiglie, sono stati fatti passi avanti nella ricerca di mescole più ecologiche che fossero in grado di resistere alle sollecitazioni termiche e che, allo stesso tempo, fossero in grado di garantire forze di attrito sufficienti a generare coppie frenanti poderose.
In alcuni casi questo processo evolutivo ha portato a pastiglie cosiddette morbide che, a fronte di prestazioni eccellenti, manifestano talvolta usura precoce. È il solito “balletto” della tecnica: si mette a posto una cosa e si cala in rendimento su un’altra. Se però si fa mente locale, ci si accorge che i progressi, per quanto si voglia dire, sono stati notevoli.
I dischi e i tamburi
I freni a tamburo, pur essendo impiegati in un ambito più ristretto di quelli a disco, sono stati anch’essi protagonisti di un’evoluzione che li ha portati verso una maggiore affidabilità, un consumo più uniforme e soprattutto una risposta più lineare. Al contrario di ciò che accadeva in passato, quando il classico tamburo, una volta sollecitato a fatica, manifestava scarsa efficienza passando da situazioni di basso attrito al bloccaggio completo della ruota.
Si faccia inoltre attenzione al fatto che l’adagio secondo cui i freni a tamburo sono ormai una soluzione obsoleta è privo di fondamento. Su molte applicazioni, come per esempio le vetture di segmento A e B, la forza frenante richiesta al retrotreno è abbastanza limitata per due principali motivi: le auto pesano poco e il trasferimento di carico in frenata porta a un ulteriore alleggerimento dell’assale, per il quale non è più indispensabile avere efficienze elevatissime. Inoltre, non va dimenticato che il freno a tamburo richiede scarsa manutenzione e, in generale, ha durate superiori rispetto al freno a disco.
I dischi si sono affermati pienamente e oggi giocano il ruolo di protagonisti negli impianti di frenatura per auto. Vanno dai più semplici in ghisa fino ai più tecnologici di tipo baffato, forato e autoventilato, talvolta in materiale ceramico. Il layout di un disco autoventilato prevede uno spessore interrotto da una sorta di camera attraverso la quale viene fatta passare l’aria per il raffreddamento del rotore. A questa soluzione vengono talvolta aggiunti elementi come la foratura, per un ulteriore migliore raffreddamento e la baffatura che ha lo scopo di mantenere “viva” la superficie delle pastiglie agendo come una sorta di lama che provvede ad asportare lo strato vetrificato delle pastiglie stesse. Nel caso più semplice, i dischi sono di tipo pieno e non presentano lavorazioni ulteriori (niente foratura e niente baffatura).
Nell’anticipato confronto tra freno a disco e a tamburo va sottolineato come il primo sia in grado di dissipare meglio il calore. Oltre a ciò, il freno a disco ha un layout che garantisce un sistema di avvicinamento alla superficie di attrito, da parte delle guarnizioni frenanti, migliore. Nel caso del freno a tamburo, invece, il problema dello spostamento parziale delle ganasce, che sono di fatto disposte in modo tale da essere messe in rotazione dal tamburo, durante l’azione frenante porta a un consumo anomalo della superficie di attrito.
Le pinze
Ne esistono praticamente di due tipologie differenti: quelle dette flottanti e quelle fisse. La distinzione è tutt’altro che banale e, a prescindere dalla differenza strutturale, queste due tipologie di pinze offrono vantaggi e svantaggi che è bene sottolineare. La pinza flottante offre una semplicità costruttiva eccezionale e quindi, dal punto di vista economico, offre innegabili vantaggi oltre che ridotto ingombro.
Questo genere di pinza viene definita flottante proprio perché è in grado di muoversi mano a mano che le pastiglie si consumano. Strutturalmente, infatti, si tratta di pinze a un solo pompante posizionato verso la parte più interna della carreggiata. Quando il pistone spinge sulla pastiglia interna il lato opposto della pinza agisce sulla seconda pastiglia inducendone l’avvicinamento alla superficie del disco. Lo svantaggio di questo genere di pinze è che lo sforzo non è mai distribuito equamente e inoltre per sostituire le guarnizioni frenanti, cioè le pastiglie, è necessario rimuovere la parte mobile della pinza.
Al contrario, le pinze fisse sono dotate di pompanti da entrambi i lati e ciò assicura una distribuzione uniforme della pressione di esercizio. Oltre a ciò, poi, la sostituzione delle pastiglie non richiede lo smontaggio del corpo pinza, a tutto vantaggio della procedura in termini di tempo. In questo caso, però, si tratta di elementi più costosi da realizzare, generalmente dedicati a un impiego sportivo anche se, ultimamente, si sono visti casi di applicazioni anche su vetture di grande serie come, per esempio, la Renault Megane RS Diesel.
L’olio per impianti frenanti
Chi è che non ha sentito parlare di sigle come DOT 4, DOT 5 e DOT 6. Questa dicitura è legata alle doti igroscopiche dell’olio e alla sua attitudine a bollire. Quando l’olio bolle, la frenata si allunga perché l’aria che si forma in seno al fluido offre una resistenza a compressione del tutto inferiore rispetto al liquido.
Un olio con un DOT elevato ha un’attitudine ad assorbire l’umidità e quindi a entrare in ebollizione prima. In altre parole, gli oli a DOT elevato devono essere sostituiti con maggior frequenza perché, pur avendo migliori performance in condizioni di esercizio, tendono ad assorbire molta più umidità. Per questo motivo, se non si è in grado di provvedere a una loro frequente sostituzione, meglio scegliere un olio con DOT inferiore.
Articolo pubblicato su Notiziario Motoristico (aprile 2008)